Particolarmente interessanti le piccole e medie imprese italiane
Marco Bonifacio, Responsabile Ufficio Studi di Zenit SGR ritiene che alcuni fattori internazionale e un forte impegno politico saranno necessarie perché l’Italia possa riprendere un sentiero di crescita duratura
Le ultime vicende politiche sicuramente non garantiscono all’Italia un ritorno a una stabilità e un equilibrio economico-politico. Che peso ha attualmente il Bel Paese nella vostra asset allocation? E quali sono i cambiamenti che si prospetta per il futuro?
Gli investimenti italiani hanno un peso rilevante nella nostra asset allocation, anche per un bias domestico che dipende dalle caratteristiche dei nostri portafogli.
Ragionando più in astratto, ci sembra di identificare tre fattori che possono muovere i mercati europei nel prossimo futuro: l’andamento del premio per il rischio, che dipende dalla fiducia degli investitori; l’evoluzione della congiuntura economica; le mosse della Banca Centrale Europea.
Su tutti questi fattori ci sembra che i mercati scontino già molte delle notizie negative e che se ci dovessero essere dei miglioramenti (una riduzione del premio per il rischio, soprattutto sulla periferia dell’Euro, o un rasserenamento della congiuntura economica, che alcuni indici anticipatori hanno recentemente suggerito, o ancora un’azione più incisiva della BCE a supporto del sistema finanziario ed economico) l’Italia risulterà essere un veicolo privilegiato per beneficiare di eventuali rialzi a livello continentale.
A più lungo termine, invece, un forte impegno politico per fare alcune riforme strutturali è necessario perché il paese possa riprendere un sentiero di crescita duratura, anche se in questo caso il tema si intreccia con quello di un’auspicata convergenza ed integrazione a livello europeo.
Infine, troviamo di particolare interesse l’investimento nelle piccole e medie capitalizzazioni del listino italiano: imprese spesso leader nei loro rispettivi settori, con una forte vocazione internazionale e meno soggette alle dinamiche della domanda interna che negli ultimi anni ha effettivamente deluso.
Anche i dati macroeconomici dimostrano che in questo ultimo anno i paesi emergenti sono in crescita ma a un livello sicuramente più basso rispetto agli scorsi anni. Qual è il paese su cui si sente ancora di puntare in questo momento?
Indubbiamente i dati congiunturali dei paesi emergenti, pur di gran lunga migliori rispetto alle controparti sviluppate, denotano un rallentamento nella crescita che negli ultimi mesi ha danneggiato anche leperformance dei listini azionari, peraltro molto sensibili agli afflussi di capitali che provengono da Occidente e che recentemente si sono orientati verso altre destinazioni.
Parlando in senso relativo, continuiamo a preferire la componente asiatica dei paesi emergenti, possibilmente privilegiando i paesi minori rispetto a Cina e India. Ottime performance hanno avuto ad esempio Indonesia e Filippine, che sono però oggi in un’area di valutazione piuttosto ambiziosa. Un miglior compromesso tra forza relativa e multipli non eccessivi caratterizza a nostro parere la Thailandia e, in misura minore, Taiwan.
Tra le altre aree geografiche, un mercato che ha avuto ottimi risultati nell’ultimo periodo, beneficiando anche della vicinanza con gli USA, è il Messico. Anche in questo caso, però, il rialzo del listino ha portato molti titoli in un’area di sopravvalutazione che induce a qualche cautela in più.
Il moltiplicarsi dei siti di estrazione di petrolio grazie alle nuove tecnologie sviluppate nel settore estrattivo sono sicuramente l’esempio più lampante di quanto gli Usa stanno realizzando per poter uscire dalla crisi economica. Secondo lei a che punto sono del loro percorso, e, inoltre, ritorneranno essere ancora la prima potenza economica?
Benché l’attenzione degli osservatori sia stata calamitata dagli enormi stimoli fiscali e monetari messi in campo dagli Stati Uniti all’indomani della crisi per poter superarla, la strategia americana non si è limitata a questo, ma ha intrapreso un profondo cambiamento strutturale della propria economia, complice un sistema produttivo e un settore dei servizi molto flessibile, ad esempio per quanto riguarda il mercato del lavoro.
Basti pensare alla ristrutturazione del sistema finanziario, con la sparizione di alcune istituzioni, la fusione tra altre, la metamorfosi di alcune delle banche d’affari in banche commerciali e il generale deleveragingdel sistema. Oppure, come suggerisce la domanda, lo sfruttamento intensivo delle nuove tecnologie nel settore estrattivo, ma anche i segnali di rivitalizzazione del settore immobiliare e automobilistico, particolarmente colpiti dalla crisi finanziaria.
Tutto ciò mentre sono oggetto di dibattito alcuni dei temi che inevitabilmente poi troveranno spazio a livello mondiale; tra questi, va certamente segnalato il dibattito sul ritorno del settore manifatturiero in patria, dopo la delocalizzazione spinta che nell’ultimo decennio ha fatto la fortuna della Cina e dell’area del Sudest asiatico.
Per tutti questi motivi gli Stati Uniti sembrano voler riaffermare con forza il loro ruolo di prima potenza economica mondiale, in grado anche di dettare i temi dell’agenda internazionale. E, in effetti, i segnali di rallentamento che si intravedono dietro i dati più recenti danno l’impressione di essere congiunturali e non indizi di debolezze strutturali quali quelli che caratterizzano ancora l’economia europea.